Parlare dei lavori di Riccardo Saltini significa fare un viaggio in un mondo in cui sorprendere ed emulare la realtà sono un must e filo portante in tutta la sua poetica, dai lavori di interior design a quelli scultorei.
“Kitchfetish”, “Omino”, “Eskimo”, “Otorongo” e “L’Uomo al centro” sono quattro delle sculture chiamate a testimonianza della poetica dell’artista, che da anni dedica energia e perseveranza sia alla ricerca materica sia a quella sull’immaginario, avvicinandosi ad una dimensione surrealista e fantascientifica.
Sculture o feticci? Icone direi, dove ogni tentativo di dare significato al titolo che essi portano diventa vano, o, casomai, esso lo possiamo ritrovare in una fervida fantasia adolescenziale, a quando Saltini dava un soprannome ai suoi amici livornesi o all’influenza dei caroselli degli anni ’70. Comunque lo vogliamo vedere Riccardo parte dal nome, da una sensazione, da un ricordo e, da lì, crea il feticcio impregnato di simbolismo e di un forte impatto scenografico, perché “l’oggetto luminoso deve attirare l’attenzione, è come l’uomo che arriva dallo spazio”.
I due elementi tecnici dei quali si avvale essenzialmente Saltini sono polistirolo ricoperto di resina colorata e la luce dei led. La luce, nel linguaggio dell’artista, ricopre un ruolo quasi primario giacché essa è energia, è “segnale”, è elemento di visibilità, è spia, e che, come in “Electro”, rappresenta e rimanda a un’anima che ancora vibra.
Una condizione d’illuminata presenza quindi, di una ricerca che volge non solo alla materia ma anche al divertimento, che si esprime nella linea grafica della scultura, che è sintesi e piacere e che, in ultima, è metafora dell’uomo moderno.
Infatti, Saltini, si avvale di un feticcio proveniente dallo spazio – contemporaneo super eroe, per esprimere quell’umana condizione a credere che la nostra apparenza sia esattamente la nostra sostanza nella quale ci adagiamo e ci mascheriamo raccogliendo attorno e su di noi luccichii, stravaganze, egocentrismi. Insomma: vogliamo credere di essere super uomini, scappare dalla quotidianità per farci però ritorno in una maniera artificiosa e plateale perché solo questa messa in scena sembra essere l’unico modo di catturare attenzioni e consensi.
Saltini lavora in tridimensionalità anche nei quadri in cui la ricerca materica diventa più accentuata e la superficie si avvale di altre simbologie, pur mantenendo quell’elemento vitale del suo linguaggio, cioè emulare la realtà ed in cui continuare a voler sorprendere e a giocare sulle percezioni materiche e sensoriali a cui, i materiali usati, rimandano.
“Qblack” è composto di una superficie vischiosa e scura, simile in tutto alla consistenza del petrolio: stesso colore, stesso odore. Da questa marea scura che sembra voler ostruire ogni cosa si ergono esili radici bianche, resistenti brandelli di vita, natura contaminata ma pur sempre natura, ricordo e riflessione sul concetto d’inseparabilità tra l’uomo e il suo ambiente.
“Raahamet”, reminiscenza dei nomi dei monoliti maya, racconta la storia di un passaggio, del camminare lento e silente di una lumaca o di un insetto che lascia la sua traccia, testimonianza di vita, ma anche incontri, strade che s’incrociano in un flusso senza né inizio né fine.
“Icon” è una serie recente di lavori in cui vi è espressa anche una ricerca grafica dell’elemento in uso. Il fil di ferro in questa rappresentazione gioca un ruolo estetico ed emotivo principale perché, non solo contrasta con il volume dell’acqua che ne fa da base, ma ne impedisce, con forza, il suo flusso naturale, la blocca, la occlude. Similmente lo stesso gioco emotivo lo ritroviamo in “Icon2” in cui una zanzariera di metallo rivestita di resina blocca l’elemento sottostante.
Ad un attento esame però ci rendiamo conto che non si tratta per l’artista di bloccare o contrarre un elemento materico a discapito degli altri, semmai il bloccare uno o più elementi emulati serve a Saltini a creare quel momento catartico in cui ogni oggetto usato esce dalla propria bidimensionalità per darsi a nuova vita.
Barbara Bacconi
Art Curator
Florencia, 2011